Dalla Curva alla Strada: il gioco di specchi tra Ultras e Streetwear

Dalla Curva alla Strada: il gioco di specchi tra Ultras e Streetwear

La domenica pomeriggio, sotto i fumogeni e i cori di uno stadio, va in scena anche una sfilata silenziosa. Giubbotti bomber consumati dal tempo, patch ricamate sul braccio sinistro, sneakers di pelle bianca illuminate dai riflettori, cappellini calcati in testa come corone tribali. La moda da curva – quell’insieme di codici estetici nati tra gli spalti delle tifoserie organizzate – ha lasciato le gradinate per riversarsi nelle strade della città, travolgendo il guardaroba urbano. E allo stesso modo lo streetwear metropolitano ha fatto incursione tra le fila degli ultras, in uno scambio continuo di influenze. Oggi, passeggiando in centro, possiamo riconoscere echi dello stile dei tifosi più accesi; e sugli spalti, tra bandiere e striscioni, scorgiamo dettagli che profumano di street culture globale. Come si è creata questa contaminazione reciproca? Bisogna partire da lontano, quando i due mondi hanno iniziato a specchiarsi l’uno nell’altro.

Tutto ha inizio in Inghilterra, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, sulle terraces degli stadi britannici. In quel periodo la violenza tra tifoserie era all’apice, e la polizia aveva preso l’abitudine di identificare e fermare chi indossava i colori della squadra del cuore. La risposta dei fan fu ingegnosa: per sfuggire ai controlli iniziarono a lasciare a casa sciarpe e maglie ufficiali, presentandosi alle partite vestiti “come persone qualunque” – jeans, maglioni Ben Sherman, polo Fred Perry – ovvero con l’aspetto innocuo della middle class. Nasce così la sottocultura dei casuals, riassunta nel motto folgorante “dress well, behave badly” – vestiti bene, comportati male. I ragazzi di curva rifiutano l’uniforme da tifoso per adottare un’eleganza insospettabile, quasi a voler ingannare il sistema. Ma dietro quei pullover e quei mocassini puliti, l’attitudine ribelle rimane intatta: la rissa del sabato non viene meno, semplicemente ora indossa un bel vestito.

Questa svolta estetica, inizialmente pragmatica, presto divenne un statement. Vestirsi bene significò ben presto vestirsi firmato. Quando le squadre inglesi cominciarono a giocare coppe europee oltremanica, orde di giovani tifosi in trasferta approfittarono delle capitali della moda come Milano e Parigi per fare razzia di abbigliamento di lusso. Tornavano a Liverpool o Manchester carichi di trofei di stile rubati all’estero: giubbotti tecnici italiani, scarpe da ginnastica introvabili, capi sportivi mai visti in patria. Marchi come C.P. Company, Stone Island, Fila, Ellesse, Sergio Tacchini o Diadora – fino ad allora semplici firme d’abbigliamento – diventarono all’improvviso simboli di una sottocultura, status symbol da esibire orgogliosamente per le strade d’Inghilterra. Chi li indossava lanciava un messaggio chiaro: io sono un ultras, ma con stile.

Un episodio-simbolo di questa contaminazione risale alla finale di Coppa dei Campioni del 1984, Roma-Liverpool. Quella sera, migliaia di tifosi inglesi invasero pacificamente la Città Eterna. Si racconta che, girovagando per le vie romane prima della partita, alcuni di loro rimasero affascinati da un dettaglio sulle braccia di certi supporter giallorossi: una patch di lana con rosa dei venti cucita sulla manica sinistra. Era il marchio di Stone Island, giovane brand italiano fondato da Massimo Osti appena due anni prima. I Liverpudlian rimpatriarono con quegli strani giubbotti e, dopo la vittoria della coppa, diffusero la parola sull’isola: bisognava assolutamente avere la giacca con la bussola. Appena sbarcato su suolo inglese, Stone Island si propagò a velocità folle negli stadi: divenne il vessillo della cultura casual, al pari delle polo Fred Perry o dei maglioncini Lyle & Scott, un vero stemma araldico di quel life-style a metà tra dandysmo e violenza. In film cult sul fenomeno hooligan come Green Street o The Football Factory non a caso spicca sempre quel giaccone con il patch giallo-verde ben visibile sul braccio. Verso fine anni ’80, entrare in una curva inglese significava trovarsi circondati da un mare di giacche Stone Island, di felpe Umbro o Burberry e soprattutto di scarpe da ginnastica Adidas: impossibile non scorgere ai piedi dei ragazzi modelli leggendari come le Gazelle o le Samba, rigorosamente immacolate. Nel gergo dei casual si parlava di “only white shoes”, solo scarpe bianche: una regola non scritta, condivisa come un codice d’onore stilistico.

Questi codici nati Oltremanica si sono rapidamente diffusi in tutta Europa, affascinando anche la curva italiana. All’inizio degli anni ’90, pure nei nostri stadi iniziavano a vedersi gruppetti di tifosi vestiti “alla casual”: via sciarpe e bandiere, spazio a giubbini firmati e sneakers alla moda. Eppure, in Italia il processo ebbe sfumature proprie. Come ha raccontato Antonella Mignogna – costume designer del film Ultras – nei primi anni ’90 a Napoli i tifosi adottavano uno stile personale, quasi paninaro, più spontaneo e meno uniforme rispetto ai colleghi inglesi. Solo in seguito anche da noi si è affermato un dress code ultras rigoroso e omogeneo. Fatto sta che nel giro di un decennio quell’abbigliamento nato sui gradoni è passato da segno di riconoscimento tribale a vero e proprio fenomeno di moda. Merito anche dei media e della musica: negli anni Novanta band britanniche come gli Oasis o prima ancora gli Stone Roses iniziarono a vestirsi sul palco esattamente come i tifosi al pub, consacrando il look casual nell’immaginario pop. Il Britpop attinse a piene mani da quella sottocultura fatta di giacche sportive, trainers Adidas e cappellini da baseball con logo, portandola dalle curve ai videoclip musicali. Di colpo, l’estetica ribelle dei tifosi era ovunque: non più solo una faccenda da stadio, ma uno stile urbano riconosciuto e imitato anche da chi di calcio sapeva poco o nulla.

Senza quasi accorgercene, siamo arrivati al punto che l’alta moda guarda alle curve per trarre ispirazione. Qualche anno fa, sulle passerelle di Versace a Milano comparivano sciarpe da ultras abbinate ad abiti di lusso (collezione A/I 2018) e Dolce & Gabbana omaggiava Maradona con una t-shirt couture sfilando per le strade di Napoli. Significava che il guardaroba della domenica allo stadio – bomberini, sciarponi, jersey oversize – aveva conquistato anche il lusso mainstream. Due figure chiave dello zeitgeist recente, il georgiano Demna Gvasalia (direttore creativo di Vetements e Balenciaga) e il russo Gosha Rubchinskiy, hanno saputo prendere quei codici estetici e sdoganarli ad alto livello, reinterpretandoli in chiave fashion. Rubchinskiy, in particolare, ha stretto una collaborazione sorprendente con Adidas Football tra il 2017 e il 2018: per tre stagioni ha lanciato collezioni ibride, mescolando felpe e giacche tecniche ispirate all’abbigliamento dei tifosi con elementi di design contemporaneo. L’idea dichiarata era di saldare il compratore sportivo a quello streetwear, unendoli con oggetti “semplici” ma carichi di nostalgia, come la sciarpa di una squadra o la maglia di un calciatore. Nello stesso periodo anche Nike ha fatto la sua mossa, portando il proprio simbolo più iconico – Jumpman di Jordan – sulle maglie di un top club europeo, il Paris Saint-Germain. Dal 2018 la partnership tra PSG e Jordan Brand ha inaugurato una linea moda ambiziosa, che unisce l’eccellenza tecnica sportiva allo stile urbano di alta gamma, segnando un’alleanza culturale senza precedenti tra il basket americano e il calcio europeo. Vedere il logo di Michael Jordan su una divisa da calcio è diventato normale: un tempo sarebbe stato impensabile, oggi è il segno dei tempi. Le collaborazioni tra club, marchi sportivi e maison si moltiplicano: capsule collection, linee lifestyle e riedizioni vintage portano il linguaggio del calcio fuori dallo stadio e dentro le boutique. Le maglie storiche tornano di moda, le scarpe da allenamento si trasformano in sneaker da città, i giacconi anti-pioggia studiati per la panchina diventano pezzi ricercati dello streetwear. La contaminazione è totale, dal retro football al futuristico.

Ma il flusso non è a senso unico. Mentre il mondo della moda attinge a piene mani dall’estetica ultras, altrettanto avviene al contrario: la strada restituisce codici estetici alle curve, chiudendo il cerchio. Oggi sugli spalti vediamo giovani tifosi adottare look che devono molto alla street culture globale. Se negli anni Ottanta l’ultras type indossava quasi esclusivamente marchi “da stadio”, adesso capita di vedere in curva anche capi nati in tutt’altri contesti: una felpa Supreme, un paio di Nike Air Max ultratecnologiche o persino una giacca camouflage firmata Off-White. Le nuove generazioni di supporter sono anche figli dell’era internet e dell’hype, vivono la città e lo stadio come un continuum, e lo esprimono nel guardaroba. In certe curve europee è diventato comune presentarsi in total black, un intero gruppo vestito di nero dalla testa ai piedi, magari con giacconi The North Face in pendant: così si comunica un’unità compatta e una potenza visiva immediata. Questa tendenza del nero tecnico – lontanissima dalla policromia festosa del tifo tradizionale – viene direttamente dallo streetwear e dall’outdoor urbano, ed è stata fatta propria dagli ultras più giovani per il suo impatto scenico (e per la comodità di restare anonimi in caso di “battaglia”). D’altra parte, la moda casual resta per molti un baluardo identitario da difendere: c’è chi, deluso dalla commercializzazione dei propri marchi feticcio, ha reagito rilanciando l’esclusività come valore. Gli appassionati di vecchia data, per esempio, tollerano malvolentieri che il loro amato logo della bussola sia finito in bella vista nei video rap o sui social dei trapper americani. In Inghilterra una parte della scena casual ha iniziato a disdegnare Stone Island una volta diventata too mainstream, al punto da intonare cori contro il marchio negli stadi. Per mantenere vivo lo spirito underground, alcuni brand nati dalla curva hanno scelto di restare volutamente di nicchia: niente produzione di massa né pubblicità urlate, solo edizioni limitate per veri intenditori. Il manifesto del marchio italiano Natural Casual recita in sostanza così: non è moda per tutti, ed è esattamente per questo che importa. Capi senza loghi vistosi, venduti in pochi esemplari, pensati dai tifosi per i tifosi – perché chi li indossa cerca più un cenno d’intesa allo stadio che un like su Instagram. È la risposta ultras alla massificazione: creare un terreno estetico privato, comprensibile solo alla tribù, al riparo dallo sguardo dei profani.

In questo ciclo di influenze incrociate, la moda e la cultura calcistica continuano a rincorrersi e reinventarsi a vicenda. Ciò che nasce sui gradoni di uno stadio finisce per sfilare in centro, e le tendenze che esplodono in città trovano la loro eco anche dietro uno striscione in curva. È un gioco di specchi affascinante: i bomber oversize, le scarpe “da terrace”, i cappellini con visiera che un tempo segnalavano l’appartenenza a una tifoseria parlano ora un linguaggio universale dello stile urbano contemporaneo. E parallelamente, ogni novità dello streetwear viene filtrata dal mondo ultras, reinterpretata secondo i suoi codici tribali e incorporata nel dress code da stadio. La moda da curva e lo streetwear insomma si influenzano reciprocamente in un abbraccio appassionato: la fedeltà ai propri colori va a braccetto con la voglia di esprimere personalità attraverso i vestiti. È la dimostrazione che calcio e moda possono convivere e arricchirsi a vicenda, raccontando insieme una storia che profuma tanto di asfalto quanto di erba tagliata, fatta di città e di stadio – due mondi solo all’apparenza lontani, ma uniti da un dialogo estetico in continua evoluzione.